Al pari della voluminosa indagine sulla “mente relazionale” pubblicata da Daniel Siegel nel 1999, il libro di Louis Cozolino, Il cervello sociale. Neuroscienze delle relazioni umane, (Raffaello Cortina Editore, Milano 2008), è una lettura particolarmente accattivante per tutti coloro che siano interessati allo studio dell’intersoggettività dal punto di vista delle scienze cognitive.
Animato dall’idea che l’individuo non possa mai essere considerato in isolamento rispetto alle dinamiche sociali nelle quali è inserito, l’autore introduce il concetto di “sinapsi sociale” per definire la complessità e la struttura di queste relazioni. Egli, infatti, non soltanto propone un’analogia fra i meccanismi che operano a livello delle reti neurali e il modo in cui le persone interagiscono, bensì sostiene che il cervello umano sia radicalmente intersoggettivo fin dalle origini e venga continuamente plasmato e rimodellato dalla varietà delle relazioni di cui facciamo esperienza. Queste sono le connessioni che Cozolino vuole illustrare e tutto il testo è dedicato ai meccanismi neurobiologici che le costituiscono e che sono responsabili non solo del loro funzionamento ordinario, ma anche di patologie dell’intersoggettività come la fobia sociale, il disturbo di personalità borderline e l’autismo.
Superando la staticità del dibattito che oppone rigidamente natura e cultura, Cozolino avanza l’ipotesi che le funzioni della mente vengano plasmate costantemente dall’interazione fra processi neurofisiologici interni e relazioni interpersonali. Come evidenziato su più fronti dalla ricerca empirica, il cervello sarebbe dunque caratterizzato da un’ampia “plasticità esperienza-dipendente” che gli permetterebbe di ristrutturare nel tempo le attività della mente sulla base delle nostre vicende di apprendimento.
Benché la malleabilità delle strutture cerebrali non sia limitata ai primi anni di vita, secondo l’autore è pur vero che le relazioni vissute nelle prime fasi dello sviluppo influenzano profondamente i meccanismi neurobiologici e possono condizionare a lungo termine la regolazione e l’integrazione della mente adulta. Riprendendo la nozione di “schemi di attaccamento” introdotta da Bowlby, Cozolino fornisce un ricchissimo repertorio di esempi a favore dell’idea che le modalità di relazione sperimentate con le figure di riferimento (caretaker) nei primi anni di vita contribuiscano a definire dei modelli di sé e dell’altro che vengono conservati nella memoria sociale implicita influenzando profondamente le nostre aspettative e le successive interazioni. Attraverso l’attivazione delle reti neurali responsabili dell’adattamento, dell’omeostasi, dello stress, della ricompensa o della paura, i rapporti con gli altri possono influenzare la struttura cerebrale favorendone o inibendone la crescita, facilitare l’integrazione di funzioni cognitive e affettive, promuovere lo sviluppo di un senso di sé coerente e permettere alla memoria esplicita di articolarsi normalmente. Come testimoniano tristemente gli effetti devastanti di forme di attaccamento evitanti, ambivalenti o disorganizzate, il cervello sociale può essere gravemente danneggiato dalle dinamiche scatenate durante l’infanzia ed è proprio su queste disfunzioni che un approccio psicoterapeutico efficace dovrebbe concentrarsi. Il dialogo instaurato con il terapeuta avrebbe infatti la possibilità di riattivare i processi neuroplastici relativi all’attaccamento, facilitando i meccanismi biochimici che permettono di modificare le strutture neurali. In altri termini, come ogni relazione interpersonale, la psicoterapia agirebbe direttamente a livello del cervello sociale, promuovendo nuovi modelli di relazione che influiscono sulla “memoria del futuro” e aumentano la regolazione e l’integrazione delle funzioni mentali.
Benché contribuisca giustamente a sottolineare l’importanza di una “psicoterapia personale”, la posizione di Cozolino anche in questo frangente riflette l’aspetto più discutibile del suo lavoro, ovvero l’implicita identificazione del livello personale e subpersonale dell’esperienza. In questo contesto la psicoterapia viene interpretata come la possibilità di agire sulle connessioni neurali del paziente influenzando il funzionamento del cervello sociale, così come ogni relazione interpersonale ha la capacità di modificare direttamente i circuiti cerebrali. Si ha dunque l’impressione che nel testo la necessaria distinzione fra i livelli descrittivi non sia preservata e venga invece suggerita in modo pervasivo l’equivalenza fra dinamiche mentali e neurobiologiche, un’equivalenza che a ben vedere non rispecchia la reale struttura della nostra esperienza. Cozolino fornisce molto materiale a supporto dell’idea che la dimensione personale dell’ esistenza sia dotata di specifici poteri causali eppure confonde subito questa interessante intuizione in una forma non molto sottile di riduzionismo, dove gli emisferi, e non le persone, “si parlano” ed è la corteccia, e non l’individuo, ad“imparare” o “ricordare”.
L’idea di creare un linguaggio comune e condivisibile per parlare del mondo delle relazioni umane esprime certamente un obiettivo centrale anche per la ricerca filosofica e tuttavia la convinzione che un approccio esclusivamente neurobiologico possa illustrare in modo esaustivo la struttura dell’esperienza umana è altamente discutibile. Sarebbe invece opportuno mantenere distinti i livelli neurobiologici, psichici e personali dell’indagine e cercare di definire l’articolazione dell’esperienza in prima persona, la quale, come suggerisce la fenomenenologia, è sempre esperienza di qualcuno, ma non per questo è priva di oggettività. Come ricorda infatti Dan Zahavi, esiste una differenza ben precisa fra un “resoconto dell’esperienza soggettiva” ed un “resoconto soggettivo dell’esperienza” ed è proprio la presenza di questa distinzione a rendere ancora oggi indispensabile la ricerca filosofica.